Il cibo ci chiama, e non possiamo fare a meno di rispondere: Estasi Culinarie di Muriel Bakery
- Redazione
- 27 gen
- Tempo di lettura: 4 min
«Morirò, e non riesco a ricordare un sapore che mi frulla nel cuore. So che quel sapore è la verità prima e ultima di tutta la mia vita...»
Sensazioni profonde, legami invisibili tra passato e presente, tradizioni e ricordi. Con un approccio alla cucina quasi Proustiano, monsieur Arthens, il più grande critico gastronomico del mondo e protagonista di Estasi Culinarie di Muriel Barbery, è in fin di vita. Ed è proprio in questo momento, nelle 48 ore che lo separano dalla morte che ripercorre la sua vita, i suoi banchetti, le sue voraci degustazioni.
Contraltare di questi ricordi sono i figli, il medico, la moglie, persino cane, gatto e portinaia, che rivendicano a loro volta una voce in capitolo, un capitolo che era stato finora condotto dal protagonista, burbero ed egocentrico ma capace di una sensibilità unica quando si tratta di cucina - e donne.
Ed è proprio il cibo essere l’unica verità che attraversa la nostra esistenza. Ogni sapore, ogni piatto ci rimanda a un frammento di vita, a una memoria dimenticata, a un desiderio che ci ha accompagnato, anche senza che ce ne accorgessimo. Una vera estasi, in cui si benedice il giorno in cui si è scoperto sulla lingua «il velluto inebriante, quasi erotico, dell'ostrica che segue un morso di pane con burro salato. Ne ho analizzato la magica delicatezza con tale grazia e virtuosismo che per tutti quel boccone divino è diventato un atto religioso».
Le cucine della nonna sono la prima tappa di questo viaggio. «Il desiderio vero, quello che ti ipnotizza, che s’impossessa di tutta la tua anima...» quel desiderio è il cibo che diventa un atto sacro, un’esperienza che va oltre il semplice nutrimento. Il cibo che cucinava la nonna era il punto di partenza per una passione che avrebbe segnato la vita del protagonista e che ancora oggi riesce a rievocare con impressionante nitidezza, un richiamo irresistibile, una magia che non si esaurisce nel piatto ma che permea l’aria stessa, il tempo, l’atto di preparare e mangiare.
E ancora il ricordo di un pranzo in famiglia, in cui il cibo non è solo nutrimento, ma anche una celebrazione della vita e dell’affetto familiare. Ogni momento è impregnato di intensità emotiva, un legame che si riaccende con ogni morso. Ecco allora che riaffiora il ricordo di sardine alla griglia, che «spandevano il loro aroma di oceano e cenere in tutto il quartiere. Dietro le piante di tuia che circondavano il giardino saliva un denso fumo grigio. Gli uomini delle case vicine erano venuti a dare manforte al nonno. Stesi su griglie enormi, i piccoli pesci argentati crocchiavano già al vento di mezzogiorno. Tutti ridevano, parlavano, stappavano bottiglie di vino bianco secco bello ghiacciato». Ogni boccone diventa così un atto quasi rituale, come quello di un bambino che osserva con occhi pieni di desiderio il cibo che si prepara: «Mia nonna prendeva con destrezza un pescetto paffuto, ne annusava il profumo e lo metteva nel piatto». Un momento di tenerezza, un piccolo rito che suggella l’inizio del piacere, di una generosità che si manifesta attraverso un gesto quotidiano, apparentemente banale.
Poi c'è quel momento in cui il piacere si fa esperienza, quando un piatto è così perfetto che diventa un atto quasi mistico. «La raffinata carezza del primo sushi sul palato per me non ha più segreti...» La sacralità del cibo raggiunge qui il suo culmine di perfezione, e tutto ciò che rimane è un’esperienza che trasforma l'individuo in un ricettacolo di piacere. È come se il cibo diventasse una vera e propria opera d'arte che va oltre la semplice soddisfazione fisica. La mente si arrende al piacere e il corpo ne diventa parte integrante.
Perché, come scrive ancora Barbery attraverso la voce di monsieur Arthens, «un cuoco per essere pienamente tale deve mobilitare tutti e cinque i sensi. Una pietanza deve essere una gioia per la vista, per l’olfatto, per il gusto, certo, ma anche per il tatto, che così spesso orienta le scelte dello chef e ha il suo ruolo nella festa gastronomica». Il cibo non è mai solo un piacere per il palato; è un’esperienza che coinvolge ogni nostro senso, creando una connessione totale con quello che ci circonda.
Anche la scelta del piatto, mentre lo sguardo scivola sul menu, «rifiutandosi per un po' di lasciarsi ghermire da una poesia precisa, cogliendone solo frammenti voluttuosi, svolazzando sulla ricchezza sfarzosa di termini pizzicati a caso» diventa un rituale quasi mistico. L’inizio dell’estasi avviene «quando finalmente la magia opera da sola e convoglia l’attenzione su una riga precisa: Petto d’anatra laccata alla pechinese in casseruola al profumo di berberé; crumble di pompelmo della Giamaica e scalogno candito». Ma monsieur ci avverte, non sono tanto l’anatra,il berberé e il pompelmo ad averci elettrizzato così, «anche se rivestono l’annuncio del piatto con una tonalità radiosa, speziata e dolce, e lo collocano in un punto indefinito della gamma cromatica a cavallo tra il bronzo, l’oro e la mandorla», quanto piuttosto lo scalogno candito, con il suo profumo immediato, che si scioglie in bocca «e dardeggia sulla vostra lingua ancora vergine la premonizione di un sapore che riunisce lo zenzero fresco, la cipolla marinata e il muschio, con la sua raffinatezza e generosità ha colto di sorpresa il vostro desiderio, che non chiedeva altro».
Capiamo allora che non è il singolo ingrediente a fare la differenza, quanto «la poesia incomparabile», la cascata olfattiva, il baccano sensoriale dei mercati cinesi, l’irresistibile croccante-tenero della carne abbrustolita, soda e sugosa all’interno della sua crosta scricchiolante. A determinare la scelta giorno, in un incontro di profumo e sapore, sarà proprio il mistero familiare di quella casseruola, che culla la cottura dell’anatra senza essere spiedo né griglia, che rievoca luoghi esotici, ingredienti mistici, e - paradossalmente - la cucina della nonna.
Nel cibo si nasconde così il potere di trasportarci avanti e indietro nel tempo in un’esplosione di flashback e flashforward di papille gustative, di ricordarci chi siamo e da dove veniamo. E, come dice Barbery, il cibo è la nostra verità più intima, quella che non dimentichiamo mai. Ogni boccone, ogni morso è una piccola magia che ci riporta a casa, al cuore delle nostre origini. Il cibo ci chiama, e non possiamo fare a meno di rispondere.