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Il Gattopardo a tavola: la Sicilia e la memoria del gusto

  • Immagine del redattore: Viola Sarti
    Viola Sarti
  • 19 mag
  • Tempo di lettura: 2 min

«Al di sotto dei candelabri, al di sotto delle alzate a cinque ripiani che elevavano verso il soffitto lontano le piramidi di “dolci di riposto” mai consumati, si stendeva la monotona opulenza delle tables a thè dei grandi balli: coralline le aragoste lessate vive, cerei e gommosi gli chaud-froids di vitello, di tinta acciaio le spigole immerse nelle soffici salse, i tacchini che il forno aveva dorato, le beccacce disossate recline su tumuli di crostoni ambrati decorati delle loro stesse viscere triturate, i pasticci di fegato grasso rosei sotto la corazza di gelatina; le galantine color d’aurora, […] beignets Dauphine che le mandorle screziavano di bianco ed i pistacchi di verdino; collinette di profiterole alla cioccolata, marroni e grasse come l’humus della piana di Catania dalla quale, di fatto, attraverso lunghi rigiri esse provenivano.»


Può una tavola riccamente imbandita evocare il lusso di una classe sociale e la

languidezza di un’epoca ormai passata ma sempre rimpianta? Possono i colori vividi delle pietanze far volare la mente ai luoghi contadini ai quali esse sono appartenute, ai suoni, ai rumori e ai ritmi lenti di un’esistenza scandita dalla Natura?


Chi ha letto “il Gattopardo” sicuramente potrà rispondere affermativamente a tutti questi quesiti: la straordinaria testimonianza di un’epoca ormai decaduta ma sempre rimpianta, magistralmente delineata da un Tomasi di Lampedusa ormai rassegnato al declino della élite siciliana borbonica, ci riporta – grazie ai suoi luoghi, profumi e colori – ad un’esistenza evanescente, fatta di pause, polvere e sudore, ma anche di lussuria, avidità e fame, tanto di prestigio, quanto di leccornie.


Il cibo, tanto nel libro edito per la prima volta nel 1958 da Feltrinelli, quanto nella serie televisiva del 2024 prodotta da Netflix, è uno dei co-protagonisti assieme agli attori principali: dalle prime scene si notano tavole riccamente allestite, mise en place impeccabili nella loro posateria argentea riflettente l’abbagliante luce siciliana, drappeggi e tendaggi coprenti e a tratti soffocanti, baroccamente trionfali nelle ampie stanze di Palazzo Salina; nulla è lasciato al caso, nulla è fuori posto: tutto trova una sua ratio anche nel più piccolo anfratto buio e polveroso della maestosa dimora.


Cosa racconta il cibo di un’epoca come questa, in bilico tra la moderna ricerca di un equilibrio unitario italiano e la speranza di una ricchezza sfarzosa ancorata all’ancien regime borbonico? Racconta di opulenza, di tradizioni intramontabili, di speranze ormai disilluse ma sempre ostinatamente ricercate… racconta di famiglia e di sicurezza, di affetto e di casa, qualunque essa sia.


Ecco perché – nonostante l’epoca travagliata e i cambiamenti imminenti alle porte – anche il cibo, proprio come la Ragion di Stato, ha bisogno di resistere e continuare ad essere immanente in una società ormai stravolta; anch'esso, infatti, subisce il fascino della celebre frase pronunciata da Tancredi allo zione: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» e si àncora al passato, fuori posto sì, ma sempre in modo elegante.

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