top of page

Tradurre la cucina: in conversazione con Antonia Mattiello

  • Immagine del redattore: Redazione
    Redazione
  • 9 lug
  • Tempo di lettura: 4 min

«Sono convinta che poter accedere a modi di preparare il cibo e di mangiare diversi possa offrire un’ulteriore possibilità di ampliare i propri orizzonti e di arricchirsi.»


Quello della cucina è un lessico semplice e complesso al medesimo tempo: se da un lato è istintivo, creativo, spontaneo, dall’altro è tecnica, lessico specifico, convenzioni che si sono radicate nel corso del tempo, passate di chef in chef, di casa editrice a casa editrice.


E proprio per questo motivo questo lessico così di nicchia, nel momento in cui lo traduciamo da una lingua all’altra, va trattato con cura e cautela. Tradurre un libro di cucina è qualcosa di più, rispetto agli altri generi: è trasferire una cultura, rendere comprensibile un gesto, trasportare l’essenza di una tradizione da una lingua all’altra. Non basta conoscere il lessico tecnico. Occorre sensibilità, spirito critico, amore per la materia.


«Si sente dire spesso che il cibo, come la musica o altre espressioni artistico-creative, sia un linguaggio universale, comprensibile da tutti. In un certo senso è vero, ma bisogna tenere presente che il cibo è un elemento non solo imprescindibile e fondamentale per la vita umana, ma è anche uno strumento attraverso cui noi possiamo raccontare il nostro territorio, le nostre tradizioni e il nostro modo di vedere il mondo e vivere il momento della consumazione dei pasti» spiega Antonia Mattiello, traduttrice editoriale freelance, specializzata proprio in libri di cucina.


«Il cibo racconta molto di noi, perché non è solo nutrimento, ma anche piacere e creatività, e proprio per questo motivo, credo, sia più un linguaggio culturale che universale. Entrambe le visioni possono coesistere, in quanto si mangia per bisogno, ma gli esseri umani attraverso il cibo esprimono anche un’altra serie di bisogni vitali, come creare, identificarsi, sperimentare e socializzare».


Quello di Mattiello è un lavoro silenzioso, certo, ma fondamentale e mai banale. Cibo e cultura sono legati, identitari, indissolubili: «prendo ad esempio noi italiani: è un tratto comune della nostra personalità scaldarci facilmente quando si parla di carbonara con la panna o amatriciana con la pancetta; quest’atteggiamento di difesa dell’autenticità di una ricetta o, addirittura, della vera origine di un prodotto o piatto, non esiste o è davvero poco diffusa o sentita in altre parti del mondo. Altre culture, invece, danno più peso alla sacralità del rituale della preparazione del cibo, mi viene in mente quella giapponese, o in altre, come per esempio la cucina kosher, la scelta degli ingredienti e le modalità di preparazione sono strettamente connesse con la religione. Il cibo è ancora una volta uno specchio che ci restituisce il riflesso di chi siamo».


E come destreggiarsi in un simile territorio, spesso ricco di espressioni culturali difficilmente traducibili? Come tradurre uno stick of butter, il buttermilk, la smetana (panna acida fermentata, diffusa nell'Europa dell'Est) o la blackstap molasses? Con molta sensibilità, certo, oltre che rispetto: «quando si lavora con i testi gastronomici succede spesso di imbattersi in piatti o ingredienti che, pervarie ragioni, non si possono tradurre. Che si tratti di nomi di ricette, di tecniche, di ingredienti considerati “esotici” o di strumenti per la preparazione dei cibi, nella maggior parte dei casi si tratta dei cosiddetti realia, ovvero termini connotati culturalmente, che non hanno corrispondenze in altre lingue» spiega Mattiello.



«Per questo motivo, non si dovrebbero mai tradurre, quanto piuttosto inserire una spiegazione per aiutare chi legge a comprendere meglio di cosa si tratta. Rispetto al passato, inoltre, oggi chiunque può facilmente accedere a un motore di ricerca e informarsi su un termine sconosciuto incontrato in una rivista o in libro. L’importante per chi traduce non è soltanto tradurre e limitarsi a fare quello, ma comprendere il contesto in cui si inserisce il testo e chi sarà il destinatario del proprio lavoro. Una volta fatte queste valutazioni, capire se si deve o meno tradurre un termine diventa molto più semplice».


E se, come dice Mattiello, il mestiere dei traduttori consiste nel creare ponti e permettere che qualsiasi tipo di testo raggiunga altre lingue con le stesse informazioni, le stesse intenzioni comunicative e lo stesso stile dell’originale, «sono convinta che poter accedere a modi di preparare il cibo e di mangiare diversi possa offrire un’ulteriore possibilità di ampliare i propri orizzonti e di arricchirsi. Al contempo, garantisce a una specifica cultura gastronomica di valicare i propri confini, essere riconosciuta, esplorata e apprezzata».


Ci sono poi parole, tecniche, ingredienti tipici di una cultura o un territorio che risultano particolarmente complessi da riportare, ad esempio, in italiano. «Quella che mi fa penare ogni volta che la incontro è sicuramente “cream” in tutte le sue declinazioni, sour cream, heavy cream, double cream, e così via. È un termine a cui bisogna fare molta attenzione, a metà tra un falso amico (poiché solo in rari casi si traduce con “crema”, mentre la maggior parte delle volte corrisponde a “panna”) e un intraducibile, in quanto la difficoltà non sta nel fatto che non ci sia una traduzione, ma che a chi traduce è spesso richiesto di trovare un ingrediente simile o equivalente, perché si tratta di ingredienti non facilmente reperibili nei negozi italiani» racconta.


Quando le si chiede con chi sognerebbe di condividere un tavolo – non da lettrice, ma da commensale – la risposta arriva subito: «Penso sarebbe bellissimo poter veder cucinare insieme nella stessa cucina e poi mettersi a mangiare allo stesso tavolo tre chef eccezionali come Ana Roš, tristellata slovena del ristorante Hiša Franko, René Redzepi, chef del Noma, e Pia León, giovane chef peruviana. Sarebbe davvero interessante e curioso vedere quali sorprendenti piatti sarebbero in grado di realizzare insieme tre grandi menti creative e innovative come loro».


Quello del traduttore è così un lavoro silenzioso, ma fondamentale. Un ponte fragilissimo e necessario tra mondi diversi, dove ogni parola pesa, ogni ingrediente racconta, ogni piatto tradotto diventa un gesto di ascolto, cura e accoglienza. Un lavoro fatto di studio, curiosità, ricerca e di sperimentazione costante, «di aver voglia e curiosità di ampliare la propria conoscenza e cogliere l’opportunità di imparare di fronte a quel che ancora non sappiamo».

bottom of page