Hazama, l’arte del Kaiseki nel cuore di Milano
- Redazione

- 9 mag
- Tempo di lettura: 5 min
«Grazie alle mie conoscenze della cucina giapponese ho potuto far sposare gli ingredienti italiani con la cucina Kaiseki andando a sostituire le verdure giapponesi con quelle del territorio»
In una traversa di via Savona, nel quartiere di Tortona, è possibile scoprire il Giappone più autentico. Hazama non è solo un ristorante: è un’esperienza che trasporta i suoi ospiti in un viaggio attraverso la tradizione culinaria nipponica, reinterpretata con ingredienti italiani, rigorosamente di stagione.
Aperto e guidato dallo chef Satoshi Hazama, dal 2020 porta a Milano l’eredità della filosofia Kaiseki, considerata la forma più alta della cucina tradizionale giapponese. Nata storicamente come accompagnamento alla cerimonia del tè, nel tempo la Kaiseki si è evoluta in un’espressione gastronomica profonda, che celebra l’equilibrio, la stagionalità e l’armonia visiva e gustativa. Ogni piatto è pensato come parte di un percorso, costruito seguendo precise tecniche di preparazione e un flusso che rispecchia la natura, i suoi tempi e le sue trasformazioni. È un rituale, ma anche un atto di cura.
Anche il ristorante stesso riflette questo approccio alla cucina: minimal, linee pulite, colori chiari si accostano al legno lucido dei vassoi sui tavoli, delle bacchette appoggiate con cura sugli hashioki, i poggia-bacchette. Sulla parete dietro il bancone, le mensole con le bottiglie di sakè, da abbinare al menu, al posto del vino.
Nel guidare questo incontro tra estetica giapponese e materia prima italiana, Hazama porta con sé un’eredità preziosa, fatta di gesti quotidiani osservati nella cucina della madre e della nonna. «Ricordo molto bene che preparavano tantissime prelibatezze fatte a mano. I sapori erano autentici e genuini», racconta. «Crescendo mi sono reso conto di essere stato fortunato di avere una mamma e una nonna che non compravano cibo già pronto. In questo modo ho capito il valore e il sacrificio che c’è dietro la preparazione del cibo fatto in casa. Oggi porto lo stesso amore e la medesima cura nella preparazione della mia cucina».
La cucina arriva quindi presto, nella sua vita. A quattro anni, la madre lo invitava ad aiutarla a preparare la merenda per lui e sua sorella. Lui lasciava i cartoni in sottofondo e preferiva stare lì, con lei, a osservare gesti e movimenti che avrebbe poi, dopo anni, portato nella cucina del suo ristorante. Anche la nonna – contadina – preparava tutto in casa, filosofia che avrebbe poi animato quella del suo locale. Preparavano a mano i mochi nel mortaio a Capodanno, i manju, panini dolci, con i fagioli azuki e friggevano le ciambelle.
È solo quando a sedici anni Hazama non passa l’esame di ammissione per la scuola superiore, che viene il momento di chiedersi: cosa voglio fare davvero? La risposta è semplice. Vuole cucinare. Vuole lavorare. E vuole dare una mano in casa. Trova posto in un ristorante: il primo stipendio lo consegna ai genitori, come spesso accade in Giappone, e loro lo conservano ancora dopo tutti questi anni, come ricordo.
Nel mentre però, racconta, a scuola Hazama si annoia, spesso la salta. È qui che entra in scena Masa Haru, lo chef del ristorante dove lavorava part-time la sera. In quello che diventerà un rapporto unico, tra un maestro e il suo allievo, Haru gli fa aprire gli occhi su quanto sia importante non sprecare i sacrifici dei genitori per farlo studiare. Niente prediche. Solo un invito: se vuoi, lascia la scuola e vieni a lavorare anche la mattina.
Hazama va a vivere con Haru, che diventa il suo punto di riferimento. Ma i ritmi sono pesanti, lavora più di dieci ore al giorno e dopo solo una settimana, Hazama sviene in cucina. È lì che capisce quanto sia duro questo mestiere, e quanto fosse facile, a confronto, andare a scuola e decide di tornare a studiare, diplomarsi e iscriversi a un anno di istituto alberghiero. Dopo, torna in cucina.
Lavora a Yokohama, dove Haru continua ad andarlo a trovare. Avevano condiviso sei anni pieni, quasi ogni giorno. È così che Satoshi Hazama ha scelto la sua sua strada, la cucina. Ma quella giapponese non gli basta, e decide di ampliare i suoi orizzonti in Italia.
Passando dalle Langhe a Milano, per comprendere a fondo ingredienti e filosofia della tradizione culinaria italiana, la decisione di restare è nata poi da un’intuizione: «vivendo in Italia ho notato che la cucina Kaiseki non era affatto conosciuta, perciò ho deciso che avrei fatto scoprire agli italiani questa cultura. Ho deciso di utilizzare per i miei piatti i prodotti del territorio in quanto di ottima qualità, pur utilizzando tecniche e condimento giapponesi. L’importante è utilizzare il metodo Goho, ovvero le 5 tecniche basilari di cottura: a crudo (taglio), grigliato, fritto, lessato e al vapore, oltre che la stagionalità della materia prima».
Lo studio della cucina italiana non è stato solo un passaggio tecnico, ma una vera immersione culturale: «ecco perché prima ho voluto fare diversi anni di cucina italiana, proprio per conoscere bene i prodotti. In un secondo momento, grazie alle mie conoscenze della cucina giapponese ho potuto far sposare gli ingredienti italiani con la cucina Kaiseki andando a sostituire le verdure giapponesi con quelle del territorio, in base a quello che la terra offre in quella determinata stagione».
L’incontro con il cliente è parte integrante di questa esperienza. Da Hazama, lo chef è spesso in sala, osserva, ascolta, racconta. «Per me è molto importante conoscere di persona i miei clienti perché in questo modo posso capire cosa si aspettano, in base alle proprie conoscenze o esperienze che possono aver avuto approcciandosi a questo tipo di cucina, magari durante un viaggio in Giappone. Soprattutto posso dimostrare l’ospitalità tipica della filosofia Kaiseki, essenziale per me».
Il gesto, la cura e la spiritualità che accompagnano la cucina giapponese si manifestano anche nel silenzio. Non c’è un rituale preciso prima del servizio, ma piuttosto un’intenzione profonda e costante: «quello che mi guida sempre durante la preparazione in cucina è il pensiero e l’attenzione che metto pensando al cliente».
Un piatto in particolare riesce a raccontare tutto questo: Una-ju, Unagi, inserito anche nel percorso di degustazione Kaiseki. «È abbastanza conosciuta, anche chi non l’ha mai mangiata se ne innamora all’istante», racconta Hazama. L’anguilla viene scottata alla brace, rifinita al vapore e laccata con riduzione dei suoi succhi uniti a salsa di soia e mirin, e infine servita su letto di riso bianco, con verdura marinata e zuppa di miso. Un piatto che incarna delicatezza, tecnica, profondità, talmente buono da poter essere ordinato nella sua versione “abbondante”.
Ogni portata, ogni ingrediente, tutto è rigorosamente preparato da Hazama in casa, persino il panko (pangrattato di pane bianco tipico della cucina Giapponese) dei tonkatsu, la cotoletta di maiale impanata e fritta.
Hazama rappresenta un raro esempio di cucina Kaiseki in Italia, un luogo dove la tradizione giapponese incontra l’eccellenza dei prodotti italiani, offrendo un’esperienza gastronomica unica e indimenticabile.
E quando si guarda al futuro, il sogno di Satoshi Hazama è ancora lo stesso, limpido come il primo giorno: «Quello che desidero davvero è far conoscere la cucina Kaiseki, e questo resta il fulcro della nostra filosofia. Stiamo però lavorando a un menu à la carte per dare la possibilità di assaggiare anche piatti diversi, preparando sempre tutto in casa, come facevano mia madre e mia nonna».













