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Il gusto nascosto dei libri: il cibo e la tavola in quattro romanzi

  • Immagine del redattore: Antonia Mattiello
    Antonia Mattiello
  • 16 set
  • Tempo di lettura: 6 min

Quando sapori e aromi sono complici del racconto e tracciano contorni definiti e vivaci, contribuendo alla narrazione.


Ci sono delle vere e proprie gemme nascoste nei libri che collezioniamo sui nostri scaffali. Alcuni hanno le pagine consumate da quanto sono stati sfogliati, altri sono classici impolverati, mezzi dimenticati, letti più per dovere che per piacere.


Che si tratti di grandi successi letterari, oppure di libri di cui abbiamo soltanto sentito parlare, in molti più casi di quanto ci aspetteremmo, possiamo ritrovare una caratteristica comune, che spesso passa inosservata, nascosta dietro l’ombra di personaggi memorabili, trame avvincenti o uno stile di scrittura formidabile: la presenza del cibo nella narrazione.


Ho scelto alcuni dei miei romanzi preferiti e pietre miliari della letteratura, e li ho osservati con occhi diversi, più attenti e curiosi, alla ricerca di quei passaggi così coinvolgenti, intimi e letteralmente gustosi in cui la cucina e quel che si mangia diventano fondamentali per raccontare la storia, darle profondità, concretezza e magia. 


Il cibo nei libri che leggiamo non è mai una casualità, e questi grandi romanzi d’autore e d’autrice ne sono la conferma.


Abbiamo sempre vissuto nel castello, Shirley Jackson

(traduzione di Monica Pareschi)


La diciottenne Marricat, la sorella Constance e l’anziano zio vivono isolati nella grande casa in campagna, mentre tutto il resto della famiglia è morto per avvelenamento. Fatta eccezione per dei vicini tanto impiccioni quanto incoscenti, nessuno li va mai a trovare e tutti in paese li osservano con sospetto.


Un giorno, però, i delicati equilibri di casa vengono bruscamente disturbati quando il cugino Charles, interessato più all’eredità che alla famiglia, va a vivere insieme a loro.


Come tutti i romanzi e i racconti di Shirley Jackson, anche questo si riconferma un capolavoro di inquietudine e tensione, popolato di personaggi folli, che infonde sin dalla prima pagina la sensazione di un pericolo imminente, e proprio per questo è impossibile smettere di leggerlo.


Tra le piccole vicende quotidiane ci sono anche tanti momenti passati in cucina a preparare da mangiare, conversazioni strampalate e al contempo terrificanti sui pasti e la strana passione di Merricat per l’Amanita Phalloides. Cos’è successo davvero in quella casa? Perché della numerosa famiglia sono rimasti solo in tre? E, soprattutto, chi è il colpevole?


«Charles è un temerario. La tua arte culinaria, per quanto di altissimo livello, presenta qualche inconveniente.»

«Non ho paura di mangiare quello che prepara Constance», disse Charles.

«Davvero?» disse zio Julian. «Mi congratulo. Mi riferivo all’effetto che un piatto pesante come le frittelle può avere su uno stomaco delicato. Immagino invece tu ti riferissi all’arsenico.»


Furore, John Steinbeck

(traduzione di Sergio Claudio Perroni)


La famiglia Joad al completo parte con i pochi averi e intraprende il lungo viaggio che la porterà dalle campagne del Midwest non più redditizie a causa del Dust Bowl, fino all’altra parte del Paese in cerca di una vita migliore. Una volta giunti in California, però, i Joad si accorgono che non è la terra promessa in cui tanto speravano. Di lavoro non ce n’è per tutti, le paghe sono misere e i datori di lavoro reprimono duramente ogni segno di protesta.


In Furore, la fame è onnipresente e assume valori molto importanti. Il cibo, nonostante la condizione precaria in cui si trova la famiglia, rimane un elemento unificante e simbolo di resistenza. Ma’, matriarca e collante del gruppo, non esita a preparare caffè e frittelle con il poco che ha per festeggiare l’annuncio di un matrimonio. 


Il cibo è allo stesso tempo il perno su cui fa leva la denuncia sociale del romanzo: i braccianti vivono di stenti in condizioni disumane, mentre ogni giorno per pochi dollari raccolgono la frutta che mangeranno i ricchi e che farà arricchire ancora di più i proprietari terrieri, che pur di mantenere alti i prezzi bruciano o gettano nel fiume i prodotti in esubero. Il cibo, per Steinbeck, non è solo sinonimo di dignità e resistenza, ma anche di umanità e solidarietà.


«[...] Perché io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. Sarò in tutti i posti… dappertutto dove ti giri a guardare. Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi ha fame, io sarò lì. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì. Se Casy aveva ragione, be’, allora sarò negli urli di quelli che si ribellano… e sarò nelle risate dei bambini quando hanno fame e sanno che la minestra è pronta. E quando la nostra gente mangerà le cose che ha coltivato e vivrà nelle case che ha costruito… be’, io sarò lì. Capisci? [...]»


Jane Eyre, Charlotte Brontë

(traduzione di Stella Sacchini)


Jane Eyre è uno dei personaggi femminili gotici più emblematici e conosciuti al mondo. Nell’omonima opera, Charlotte Brontë mette al centro del suo romanzo un nuovo modello di eroina e donna. Jane è una ragazza intelligente, decisa e mai disposta a cedere a compromessi e tradire i propri valori.


Rimasta orfana in tenera età e lasciata a una zia che la esclude dall’affetto familiare, la situazione di Jane non migliora quando viene mandata in un collegio per ragazze. Il suo primo giorno nella scuola, a colazione mangia del porridge bruciato, a pranzo una sbobba rancida di carne e patate e per cena un misero tortino di avena.


Nel romanzo il cibo segnala le differenze di status sociale tra personaggi, sottolineando ingiustizie e disparità. Ma nel contesto del collegio, luogo privo di amore e conforto, l’austerità viene smorzata dal gentile invito di Miss Temple che offre alla piccola Jane e all’amica Helen, tè, pane e burro e del seed bread, tipico pane con semi profumati.


Una simile dimostrazione di cordialità la troviamo all’arrivo di Jane nella dimora di Thornfield Hall, quando viene accolta con sandwich e hot negus, una bevanda calda a base di porto e noce moscata. E anche dopo la fuga e diversi giorni di vagabondaggio viene ospitata senza esitazioni dall’umile famiglia Rivers che condivide con lei il proprio cibo povero ma pieno di amore


E dopo aver invitato Helen e me ad avvicinarci al tavolo e aver posto davanti a ciascuna di noi una tazza di tè e una deliziosa, ma sottile, fettina di pane tostato, si alzò, aprì un cassetto, tirò fuori un pacchetto avvolto nella carta e ne estrasse, proprio davanti ai nostri occhi, un bel pezzo di torta coperta di semi. [...] 

Quella sera fu come banchettare con nettare e ambrosia; e il sorriso soddisfatto con cui la nostra padrona di casa ci guardava, mentre appagavamo i nostri appetiti famelici con tutti i manicaretti che ci aveva offerto con tanta magnanimità, non era certo la minor gioia della serata.


Guida il tuo carro sulle ossa dei morti, Olga Tokarczuk

(Traduzione di Silvano de Fanti)


Janina, un’anziana professoressa che vive sola in un piccolo villaggio di un altipiano della Polonia, cerca di risolvere il mistero dietro a una serie di omicidi. 


In Guida il tuo carro sulle ossa dei morti, Tokarczuk inserisce piccoli, semplici ma squisiti momenti conviviali, come il rituale del tè (quello nero è per la protagonista l’unico degno di essere bevuto) preso in solitudine, quando ne ha bisogno per concentrarsi, o con gli amici che la vengono a trovare. 


Nell’opera, poi, conta moltissimo anche quello che non si mangia, e perché: in più punti viene ripetuta la scelta vegetariana di Janina che ama gli animali a tal punto di non riuscire a cibarsene.


Ma non si può dire che in questo meraviglioso romanzo il cibo assuma un ruolo rilevante fino a quando non si arriva all’epilogo. È a quel punto, che quasi dal nulla, ci ritroviamo sotto agli occhi una ricetta, la zuppa di Senape (con la maiuscola come piace a Janina), descritta con tanta precisione che ne sentiamo la fragranza e il tepore. Raccontata nel dettaglio come in un vecchio libro di ricette della nonna, se la si legge con attenzione, tra dosi e passaggi, la preparazione della zuppa ci svela qualcosa di più profondo di quel momento, di Janina e di ciò che avverrà più tardi.


La zuppa di Senape. Si prepara in fretta rapidamente, non richiede troppo lavoro, perciò feci in tempo. Prima si scalda in padella un po’ di burro e si aggiunge della farina, come se avessimo voglia di fare la besciamella. La farina assorbe splendidamente il burro fuso, poi se ne satolla, si gonfia dalla contentezza, allora la bagniamo con abbondanti latte e acqua, mezzo e mezzo. Terminano purtroppo le scaramucce tra farina e il burro, lentamente nasce la zuppa, ora bisogna salare il liquido chiaro e ancora innocente, pepare e aggiungere del cumino, portare a ebollizione e togliere dal fuoco. E solo adesso si aggiunge la senape [...] La servo con i crostini e so quanto piace a Dyzio.


Il cibo, i gesti attorno alla tavola, i sapori e gli aromi che riempiono le cucine nelle storie che ci appassionano, spesso ci sfuggono, passano in secondo piano e sono dati per scontati, ma anche quando non ci facciamo molto caso, sono complici del racconto e tracciano contorni più definiti e vivaci alle scene, testimoniando la fame e l’abbondanza, la novità e l’abitudine, il tepore di una famiglia e la nostalgia di casa.

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