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La Bursch, il borgo che racconta una nuova idea di accoglienza

  • Immagine del redattore: Redazione
    Redazione
  • 16 ott
  • Tempo di lettura: 4 min

La Bursch è un piccolo ecosistema di persone, storie e gesti che si intrecciano tra loro. Un luogo che restituisce valore al tempo vissuto, alla qualità delle relazioni.


Tra i boschi di faggi e castagni dell’Alta Valle Cervo, a un’ora da Milano e Torino, un piccolo borgo di pietra è tornato a vivere. La Bursch, che nel dialetto walser significa “casa” o “rifugio”, è oggi una country house diffusa, nata dal desiderio di Barbara Varese di restituire vita e dignità alla dimora di famiglia.


Con l’abbandono della dimora e il passare degli anni, infatti, la natura aveva ripreso possesso di tutto: muri coperti di muschio, tetti crollati, gli animali a popolare gli spazi un tempo vissuti.


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L’idea è maturata lentamente, come accade alle cose autentiche: dopo anni di distanza da quei luoghi che in gioventù apparivano remoti, Varese li ha riscoperti attraverso lo sguardo delle sue figlie. Il loro approccio, fresco e privo di nostalgia, ha acceso qualcosa: l’idea che quei luoghi potessero tornare a vivere non come un monumento al passato, ma come una casa che tornasse ad aprirsi.


Durante il lockdown del 2020, La Bursch è diventata un luogo di ospitalità etica, di rinascita territoriale e imprenditoria consapevole, dove natura, cultura e accoglienza si fondono in un equilibrio misurato. Non un albergo di montagna, ma un microcosmo che restituisce valore a un territorio di confine, crocevia di culture e saperi.



Il restauro ha seguito un principio preciso: custodire, non rifare. Le antiche tecniche costruttive della Valle Cervo — una terra di scalpellini e costruttori — sono state recuperate insieme ai materiali originari: la pietra di sienite, il legno grezzo, il ferro. Gli arredi di famiglia sono stati restaurati e affiancati da pochi elementi contemporanei, scelti per dialogare con la storia e non per sovrastarla.


È un equilibrio sottile: la memoria non deve diventare nostalgia, e la modernità non deve imporre un linguaggio estraneo. La Bursch vive di questo costante bilanciamento, dove il tempo non si contrappone, ma si sovrappone come in un racconto continuo.


Il risultato è un insieme di spazi che raccontano epoche diverse: ambienti dove ogni parete, ogni tessuto sembra respirare al ritmo del tempo. Nulla è artificioso, e proprio per questo tutto è curato. Gli interni conservano il calore domestico di un luogo vissuto: una sala da biliardo anni ’30, la taverna del pozzo, la cappella privata, i salotti con dischi e libri di famiglia. Fuori, il giardino si apre su un biolago balneabile, un braciere, un campo da bocce e piccole zone d’ombra dove fermarsi a leggere o bere un caffè.


Le camere, diciassette in tutto, sono viaggi a sé. Africa, con i suoi bauli e i tessuti caldi; Asia, dove mandala e maschere si mescolano a stampe zen; Europa, elegante e intima, tra merletti e Toile de Jouy. Nella Casa dell’Alchimista, le stanze portano i nomi dei pianeti — Marte, Venere, Saturno — mentre all’ultimo piano, la Soffitta di Nettuno profuma di legno e silenzio. Ogni stanza è un piccolo mondo, un racconto autonomo dentro un viaggio più grande. Forse più che un viaggio in avanti, è un ritorno. Ogni esperienza lascia un segno che prima o poi ci riporta a casa.


L’ospitalità segue la stessa filosofia. Qui accogliere non è un gesto formale, ma un modo di far diventare gli ospiti parte della casa, coinvolti nella sua quotidianità. Non c’è un check-in impersonale, ma un saluto, un nome, un gesto. Una tisana con le erbe del giardino, un consiglio per una passeggiata, una chiacchierata davanti al camino. Il lusso, in questo contesto, non è sinonimo di opulenza ma di autenticità: la qualità dei materiali, la discrezione del servizio, la cura che si avverte in ogni dettaglio.



Persino il giardino, con l'agorà dove la sera ci si ritrova davanti al fuoco, un campo da bocce e angoli appartati per leggere o condividere un bicchiere di vino e il biolago balneabile, è stato pensato per favorire la connessione con l’ambiente circostante, non per dominarlo. Qui la natura ruvida e ancestrale della Valle del Cervo non è semplice contorno, ma parte integrante del progetto: entra nella vita quotidiana, nei menù, nei profumi e persino nel ritmo del borgo.


Lo stesso equilibrio anima la cucina. Al ristorante, aperto anche agli ospiti esterni, la giovane chef piemontese Erika Gotta firma una cucina di territorio e intuizione, che parla di tradizione ma non teme di innovare. Gli ingredienti arrivano da una filiera cortissima: ortaggi e fiori raccolti in giardino, carni e formaggi di produttori locali, vini da vitigni autoctoni. I piatti raccontano la memoria con una leggerezza nuova: la “Cacio e Pino” con gemme d’abete, la Cipolla con miele fermentato e caramello, la rivisitazione dell’Aglio e Olio con ruta e frutti rossi. È una cucina che nasce dal luogo ma guarda oltre, fedele all'origine degli ingredienti e al piacere di chi li vive. Le erbe, i profumi, la biodiversità della valle diventano parte integrante del linguaggio gastronomico.


Accanto al ristorante, St’Orto rappresenta la sua versione più libera e conviviale. Un bistrot a cielo aperto durante l’estate, immerso nel verde, dove piatti vegetali e cocktail si alternano a merende e gelati artigianali. In inverno, tutto si sposta nella cantina in pietra, dove si tengono degustazioni e cene a tema davanti al camino, una cucina della leggerezza e della connessione, un modo per rendere il borgo vivo tutto l’anno, accessibile e condiviso.


Ogni stagione cambia volto al borgo: l’estate è luce ed espansione, l’autunno profuma di legna e funghi, l’inverno è intimità, la primavera restituisce colore e energia.


Oggi La Bursch è un piccolo ecosistema di persone, storie e gesti che si intrecciano tra loro. Non un rifugio per pochi, ma un luogo che restituisce valore al tempo vissuto, alla qualità delle relazioni. È tornata a respirare e con lei, chi la abita, chi la scopre, chi sceglie di tornarci.


Un borgo che ha ritrovato la sua funzione originaria — essere casa, rifugio, tana — ma l’ha reinterpretata in chiave collettiva. Perché La Bursch accoglie e protegge, ma allo stesso tempo apre, invita, accompagna. È un luogo che si lascia scoprire con dolcezza, come una persona che non ha bisogno di parlare troppo per farsi capire.

 
 
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